Le gare di golf in tempo di Covid
Innanzitutto: credo che di questi tempi poter prendere parte ad una gara di golf sia – a prescindere dal risultato – un grande privilegio. Questo è quello che mi è successo nel fine settimana del 20-21 marzo, oltretutto nel mio campo. Ne tratteggio qui qualche impressione.
Non ha molta importanza il mio risultato, anche perchè si sa che nel golf you are your numbers e io ho fatto parecchi disastri. Ricordo un conoscente, tanti anni fa, che mi spiegava perchè ne aveva tirati 83 e non 82, e mi raccontava una serie infinita di sue noiosissime buche e io non riuscivo più a sganciarmi. Ma tra un 82 e un 85, per dire, non c’è differenza alcuna: a livello dilettantistico la differenza può essere tra 79 e 80, e una differenza importante c’è tra un 72 e un 73, ma tutto il resto è solo fuffa che ci raccontiamo per darci delle giustificazioni.
Quindi non parlo del mio gioco, ma racconto qualche episodio.
Sabato alle 7 sono al circolo, la temperatura è intorno allo zero. C’è quell’atmosfera di leggera tensione che si respira in questo genere di gare, acuita dal fatto che con il Covid non puoi scherzare. E allora già all’ingresso c’è una sorta di comitato di accoglienza che verifica che ciascuno abbia i documenti necessari e la certificazione del tampone negativo (che chi gioca deve obbligatoriamente aver fatto nelle 72 ore precedenti l’inizio della gara). E poi in segreteria si forma una discreta coda dovuta appunto al fatto che i controlli sono molto più accurati: il braccialetto che diventa un lasciapassare, i moduli, naturalmente la temperatura…
Parlicchio con gli amici, infreddolito vado in campo. Ho 53 diconsi 53 anni, e la domanda che non posso far uscire dalla mente in questi casi è: è il caso che continui a partecipare a gare dove sono non dico il più anziano, ma certamente nel 10% più elevato per età? Dei miei due compagni di gioco, per dire, uno ha l’età di mia figlia piccola e l’altro avrà sÏ e no vent’anni (più no che sì, dovessi dire). Ma non è questo, il punto è il maledetto tempo che passa.
Eppure in questa gara, la prima nazionale per me da lunghissimo tempo (l’ultima uscita è stata proprio qui alla Margherita un anno e mezzo fa), c’è in me quella sensazione dell’essere di nuovo in pista, quel leggero brivido che compensa il freddo, la fatica e gli scricchiolii sinistri che sento nelle giunture. O come dice Jack Walsh ad Alonzo Mosley in Prima di mezzanotte, a mio modo di vedere il film più bello di sempre: “Mi sento di nuovo uno sbirro”. (Insomma Gianni: non dimenticare la tua fortuna.)
Ma insieme a quella c’è l’altra, meno immediata e molto più subdola cui facevo accenno prima, quell’idea del tempo che passa e che alla fine avrà la meglio su di me. E anche qui c’è chi (Fred Shoemaker, in un libro di Brett Cyrgalis) lo dice molto bene:
So che a un certo punto il golf finirà per me. » così per tutti. E mi mancherà. Non mi mancherà necessariamente un nuovo campo da golf e cose del genere. Ma un cestino di palle, nient’altro che il tempo… A volte è il sole delle dieci del mattino, o il tardo pomeriggio, quando il momento è giusto e tutto sembra in ordine. In qualche modo è allora che la vita ha più senso.
Al termine del primo giro mi ritrovo in putting green con un gruppo di amici cari, persone che appartengono al circolo da molto più tempo di quanto io sia in grado di pensare, e uno zelante arbitro viene a dirci che il protocollo stabilisce che un giocatore deve lasciare il circolo al massimo trenta minuti dopo il termine della gara. Di fronte al Covid non si scherza, no, e dunque mestamente ce ne andiamo tutti.
E proprio una leggera mestizia è la sensazione principe che mi rimane di questi due giorni, perchè la vita in qualche maniera ci sta derubando di attività – come il putt con gli amici dopo un giro, per esempio – che dovrebbero appartenerci di diritto.
Non voglio farla troppo lunga, sono fortunato e me ne rendo conto; però siamo come motori a tre cilindri.
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