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Il bounce, come lo sento io

Uno dei concetti golfistici che ho fatto più fatica a comprendere, in questi miei quindici anni di golf, è il bounce. Confesso che per anni non ho avuto un’idea precisa di che cosa si intendesse con “bounce”.

In tempi recenti sono arrivato ad alcune conclusioni (provvisorie – ormai mi è chiaro che nel golf non c’è nulla di definitivo), ovvero delle scoperte che cerco ora di illustrare.

Partiamo dalle definizioni. In un bastone, il bounce

è l’angolo tra la tangente ortogonale alla suola e il terreno. In genere i ferri fino al 9 hanno un bounce nullo, mentre è considerevole nei wedge (4-16°), soprattutto allo scopo di permettere una miglior uscita dalla sabbia e dal terreno umido.

(Qui un articolo che spiega bene di che cosa stiamo parlando.)

Per quello che so io del gioco corto il concetto di bounce si applica soprattutto alle uscite dal bunker e al gioco intorno al green, diciamo fino ai 50 metri. (Andando oltre la musica cambia, o quanto meno quello che ho imparato di recente lo trovo applicabile soprattutto a questi tipi di colpi.)

Un mio problema, di cui sono stato consapevole solo in tempi recenti, è stato l’aver usato per i wedge fondamentalmente la medesima posizione del bastone rispetto ai ferri, con le mani tenute verso l’obiettivo (grossomodo all’altezza della tasca sinistra dei pantaloni), di fatto eliminando il bounce e dunque creandomi dei problemi (attività in cui sono maestro; ma non divaghiamo). Confusamente sentivo che c’era qualcosa di sbagliato, ma non riuscivo a capire.

Un barlume di soluzione mi è giunta da un’osservazione letta su My Golf Numbers, che mi ha dato da pensare. Dice infatti Doctor Nick, al secolo Niccolò Bisazza, che tenere le mani molto avanti con i wedge è un peccato capitale, perché rende (insieme ad altri fattori) ingestibile l’angolo d’attacco. Poi, nelle ricerche mi sono imbattuto in questo video dove Silvio Grappasonni fa una breve lezione di uscita dal bunker (e non importa che non dica nulla di che, che si senta poco e che sia pure tagliato: quel che dice Grappasonni per me è oro colato e lo ascolto sempre con attenzione estrema), e quindi in altre letture che ora non sono in grado di citare.

E dunque rispetto alla mia antica posizione bado ora a tenere le mani più indietro, ovvero più lontano dall’obiettivo, verso il centro del corpo. A questo aggiustamento principale ne vanno aggiunti cinque “minori”:
1. tenere i piedi stretti;
2. tenere il peso 60 e 40, ovvero favorendo l’appoggio sul sinistro;
3. badare di attraversare bene il colpo;
4. tenere le mani vicine al corpo all’impatto;
5. tenere le mani alte nel finish.

Non riesco sempre a mettere insieme tutti questi punti, e del resto non tutti sono necessari e certamente non sempre. Ma tenere le mani più indietro aiuta a far lavorare veramente il bounce, e così la palla parte più alta. Insomma un wedge fa veramente il wedge.

Poi certo, in questa maniera ho scalfito appena la superficie, mentre un inizio di lavoro scientifico vorrebbe dire passare una giornata con un maestro a provare diversi bounce in superfici diverse, con condizioni di campo differenti, e poi leggere e studiare molto di più di quanto non abbia fatto fino ad ora. Senza dimenticare il fatto che siamo ai confini tra arte e scienza, e che come dicevo prima il punto fermo non lo metteremo mai. (Del resto solo i morti non hanno il mal di pancia.)

Conclusione: con questo set up sento il bounce lavorare veramente come dovrebbe. Il rumore all’impatto è differente, più pieno e rotondo; la palla parte più alta e si ferma prima. Insomma il colpo diviene più controllabile e il margine di errore si riduce.

Benedetto bounce.

Clicca sull’immagine qui sotto per visitare la sezione dedicata e scoprire gli altri contenuti.

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