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Ho cominciato a giocare a golf da giovane adulto. Avevo 36 anni all’epoca, mi sono avvicinato a un mondo sconosciuto che mi ha stregato in un amen. Mi bruciava dentro la voglia di diventare più bravo, di capire le sottigliezze dello swing, degli approcci, del putt. Quante volte ho rivisto in sogno i miei colpi!

Poi sono passati 17 anni e ora sono un senior. Lo sono già da qualche anno in effetti.

Ho i capelli grigi, la vista che cala.

Ho meno voglia di un tempo di dedicarmi anima e corpo al golf, perché tante cose le ho già viste. Situazioni già vissute, non c’è molto nel golf che possa stupirmi oggi. Questo, del resto, l’ha detto magistralmente Leopardi:

“Ahi ahi, ma conosciuto il mondo non cresce, anzi si scema, e assai più vasto l’etra sonante e l’alma terra e il mare al fanciullin, che non al saggio, appare”.

E credo che questo sia un sentire comune a tante persone nate negli anni Sessanta. (Anche perché vedo sempre meno persone della mia generazione alle gare della Federazione cui un tempo partecipavano. Spesso e volentieri mi trovo a giocare con ragazzi i cui genitori, che li accompagnano, sono ben più giovani di me.)

Eppure il mio swing non è mai stato così cesellato come oggi.

Eppure c’è nel golf quel che di elusivo, di impalpabile e irraggiungibile, un desiderio sempre resurgente che fa sì che tu voglia tornarci ancora e ancora.

Per me è la fine dell’arcobaleno, quell’agognato giocare scratch cui forse arriverò. O forse no.

Ho cinquantatré anni, i capelli grigi, tante ansie e paure che col golf non hanno nulla a che fare; ma con Gianni sì, e questo complica le cose.

Forse ci arriverò. O forse no. In ogni caso la fine dell’arcobaleno è là che mi aspetta.

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