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Sono partito da un mio problema specifico.

Ma vorrei allargare il discorso a beneficio del lettore: perché si tratta di un problema proprio di qualunque golfista che giochi almeno da qualche tempo.

Il mio problema specifico è questo: non so fare draw col driver. Ma il problema generale è questo: quando giochiamo da un po’ di tempo (e a maggior ragione se giochiamo da tanto tempo, e a ragione ancora maggiore se pratichiamo tanto) si formano in noi degli automatismi di gioco, grazie ai quali non dobbiamo ogni volta pensare come si tira un bastone; ma semplicemente ripeschiamo in maniera automatica e inconsapevole le informazioni dalla memoria e le utilizziamo allo scopo. Chi più e chi meno a seconda del livello di abilità, ma questo vale per tutti.

Però… però quando abbiamo praticato a lungo un colpo specifico quello che sappiamo in maniera automatica può essere di grave intralcio, se non va nella direzione desiderata.

Nel mio caso il problema col driver mi è molto chiaro. Perché la teoria la so: fare draw col driver vuol dire allinearsi, per esempio, quattro gradi a destra rispetto all’obiettivo e avere la faccia del bastone che all’impatto punta due gradi a destra dell’obiettivo (ovvero aperta rispetto al bersaglio ma chiusa rispetto alla direzione dello swing). Questo è chiaro e pacifico e dimostrato dalla scienza (TrackMan in primis). Se il colpo è eseguito in questa maniera, la palla partirà in una direzione compresa tra la linea dello swing e la direzione della faccia (più vicina alla prima) e poi curverà verso l’obiettivo. Il classico draw perfetto, quello che un giocatore professionista è in grado di eseguire scientificamente senza pensarci più di tanto, o anche istintivamente senza pensarci per nulla.

Allora il problema non è più fare draw col driver, ma è prima disimparare tutte le conoscenze – tutte, via, tante, tutte quelle non corrette – che ho a proposito del driver, stratificate in lustri di pratica e letture e riflessioni e chiacchiere, e poi fare draw, perché nel mio caso (ma suppongo di essere in buona compagnia) la seconda cosa non può esistere senza la prima.

Un bel punto interrogativo. Certo, se il denaro non fosse un problema, allora penso che un paio d’ore di lezione alla settimana con un maestro per sei mesi potrebbero risolvere il problema, o quantomeno avviarlo a soluzione decisa. Ma il denaro è un problema, quindi la soluzione è da scartare a priori. (E del resto in passato ho preso molte lezioni dicendo al maestro che questa era la cosa prioritaria che volevo correggere/imparare, ma comunque non ci sono riuscito.)

Per partire da esempi sommi, mi viene in mente quanto David Leadbetter fece con Nick Faldo a metà anni Ottanta, prendendo un gran giocatore che era però insoddisfatto del suo swing e trasformandolo in un giocatore eccellente, in qualcuno che rimane nelle pagine centrali, e non nelle note, dei libri di storia del golf.

Però: in pratica?

Ogni tanto ascolto pareri che mi paiono sensati, oppure leggo o vedo qualcosa e mi metto lì di buzzo buono a provare e riprovare. L’ultima volta una settimana fa: ho tirato 85 drive tutti pensati. Ma poi il risultato non viene, questa è la realtà con cui mi scontro. O, più precisamente, mi trovo davanti ad un picco di crescita decisamente forte, davanti ad un muro che non so scalare.

Quindi la teoria mi è chiara: so che dovrei disimparare prima di imparare, e in quella maniera riuscirei a scavalcare quel muro e procedere oltre. Ma la pratica è diversa: la pratica è che sono arrivato ad un punto dove molto probabilmente è decisamente più saggio accettare i miei limiti e convivere, semplicemente convivere con l’idea che determinate azioni non sono in grado di farle. Un po’ teatralmente potrei qui citare Eduardo:

Piccerì, a passà nun passa, ci si abitua.

Sì, perché qui si innesta un’altra sensazione che mi prende ogni tanto, quando mi rendo conto che per quanto possa impegnarmi e praticare ci sono cose che comunque non imparerò. E c’è una ragione molto precisa per questo, che per me è diventata limpida tanti anni fa quando Silvio Grappasonni in una telecronaca stava commentando un’uscita dalla sabbia di Ernie Els e disse qualcosa del genere: si vede che quel movimento l’ha praticato all’infinito sin da bambino, e dunque per lui è del tutto naturale. Al contrario le mie uscite dal bunker (ma col drive è esattamente la stessa cosa, soltanto un poco amplificata), per quanto praticate e raffinate col tempo e la pazienza, saranno sempre “costruite”, avranno sempre e comunque un che di posticcio, di appiccicato che le rende immediatamente riconoscibili.

E quindi la soluzione a questo problema non esiste. Non esiste per me come, credo (ahimè), per tanti dilettanti della mia età, per quanto bravi. O per meglio dire esiste: ed è nell’accettazione stoica dei limiti personali e del fatto che nessuno potrà mai veramente possedere il golf. E dico questo a consolazione di tutti noi, perché vale anche per i giganti del golf. Ad esempio Colin Montgomerie ha dichiarato che è stato veramente in the zone una volta sola, all’Open del Portogallo nel 1989, dove vinse per undici colpi. “La buca – ha detto – era come un secchio. Alla fine ho smesso di allinearmi per i putt – e sono entrati lo stesso. Non è più successo da allora”. E se lo dice Monty…

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